Intervista a Franco "Bifo" Berardi, realizzata da Stefano Golfari

La mia migliore lettura nelle settimane in cui tutto si era improvvisamente fermato, bloccato, e la città sembrava una quinta di scena abbandonata dagli attori, è stata il diario personale che Franco "Bifo" Berardi teneva sul sito di Nero editions: Cronaca della psicodeflazione. Da "Contro il lavoro" che è del 1970, ma nel mio ufficio anagrafe personale dalla rivolta socio-estetica del '77 soprattutto, Franco "Bifo" Berardi è uno dei cervelli più fluidi del contemporaneo: la cosa è del resto confermata dall'attenzione internazionale, ma qui in Italì lo hanno sempre ammesso a fatica, e anche quella sua straordinaria capacità di capire e sentire il XXI secolo che è tesaurizzata nei suoi ultimi (e inquietanti) lavori, come Heroes e Futurabilità, è rimasta confinata nei sotterranei dell'underground, dove, dal post'77, vive il nostro miglior pensiero. Forse è anche meglio così (tutto è sempre più superficiale in superficie) ma stavolta è diverso: il diario fa ciò che deve, racconta il quotidiano personale, il privato, i timori, i tremori e i fastidi delle settimane sconvolte dal Virus e proprio in mezzo a questa banalità del male il pensiero (mai banale) di Berardi acquista il talento della sincerità e della vicinanza, qualità rarissime e preziose per chi ha il cervello fino. Ora che siamo già in un'altra epoca, in un'altra "fase", il diario è diventato un saggio strutturato in tre tempi, oltre alle Cronache della psicodeflaione si aggiungono Sei meditazioni sulla soglia e un Post scriptum particolarmente interessante per l'incazzatura contro l'occasione persa nel mentre in cui il mondo dietro il mondo si mostrava smascherato alle nostre mascherine. L'occasione persa da una generazione troppo interna al sistema per immaginarne uno diverso, e contro i Millennials che hanno vissuto il lockdown della "responsabilità" e non quello della "rivoluzione", Bifo lancia frecce avvelenate:
"Perché avete accettato di essere così responsabili? Perché avete accettato il confinamento solo per evitare problemi al nonno? Perché non vi rendete conto del fatto che voi siete la vittima sociale, che vi stanno sfruttando come schiavi? Perché non vi ribellate con tutti gli strumenti disponibili?”
E' la concusione amara delle Cronache iniziate dall'epifania di un profezia: la Globalizzazione che si inceppa, la fine del Circo, il blocco della grande Disneyland del Capitale innescato dai suoi errori e dai suoi orrori. Tuttavia niente può dirsi "come prima", il disvelamento è ancora in mezzo a noi, stavolta non più come opinione evanescente ma invece come realtà, accadimento, cronaca, dato di fatto. Il titolo del saggio Fenomenologia della fine ha, se lo guardi da questa angolatura, uno strano sorrisetto che si disegna agli angoli... E infatti l'intervista che segue è tutt'altro che cupa, è piena di nuova energia e nuova visione, e anche individua Milano come uno dei punti sui quali fare forza. Perché un'altro mondo è possibile e se no sono guai: questo è malato e il vaccino non c'è. Oltre l'intervista, consigliasi dunque vivamente a tutti la lettura del nuovo saggio. I figli dei millennials potranno altresì divertirsi con A poco a poco... Apocalisse (Momo ezioni), l'altro Bifo-libro (testi e illustrazioni) del quale l'intervista parla. Sottolineando la frase: "l'Apocalisse non è una maledizione, è una rivelazione..."

Intervista
"Ripartire", anche alla cieca: la gente vuole il mondo come prima. Berardi, invece, scrive da cinquant'anni (Contro il lavoro è proprio del 1970) che viviamo in una pazzia destinata alla catastrofe, e la pandemia virale qualche brivido nel merito lo ha dato. Qual è l'utopia più vera, il "Liberi tutti" o la "Fenomenologia della fine"?
Il lungo lockdown che abbiamo vissuto ha smascherato una parte del tema: il funzionamento della macchina globale capitalistica (che credevamo inarrestabile) può fermarsi, anzi si è fermata. Che si possa rimettere in moto esattamente come funzionava prima, che si possa riattivare la “normale” dinamica della crescita, è assai improbabile. Il collasso del ciclo globale delle merci, il crollo finanziario e ancor più la voragine del mercato del lavoro renderanno molto difficile, e probabilmente impossibile una “ripresa” degli indici economici tradizionali. Naturalmente si tratterà di uno scenario drammatico, e non possiamo nasconderci che sia destinato a produrre disagio, sofferenza, e forse anche tragedie politiche e sociali. Ma al tempo stesso questa situazione ci presenta una possibilità: la possibilità di ridefinire consapevolmente e collettivamente l’orizzonte delle priorità sociali, e quindi di riorientare le direzioni in cui investire le energie umane, che, a questo punto, non voglio più definire come lavoro, ma preferisco definire con la parola attività.
Dove sta la differenza?
L’attività umana è stata costretta entro le modalità del lavoro salariato quando il modello capitalistico ha subordinato l’attività umana allo scopo di accumulare valore astratto, capitale. Per tutta l’epoca moderna questa riduzione ha reso possibile una dinamica espansiva gigantesca, che ha messo in atto la costruzione della civiltà industriale, con tutte le buone cose progressive che essa ha offerto alla società. Ma da un certo momento in poi la dinamica espansiva si è rivelata sempre più contraddittoria: già nel 1971 il Club di Roma (nel Rapporto sui limiti della crescita) segnalava il fatto che in un pianeta finito, in cui le risorse fisiche della terra sono limitate, non si può perseguire una crescita infinita del prodotto, perché questo darebbe inizio a processi distruttivi. È quello che si è verificato nei decenni successivi a quel Rapporto. Giunto al punto limite delle possibilità espansive (colonizzazione di nuove terre, estrazione di materiali fisici, sfruttamento delle energie nervose dei lavoratori) il capitalismo ha intrapreso una strada essenzialmente distruttiva, continuando nel processo estrattivo accelerante, piuttosto che virare verso un modello frugale ed egualitario dei consumi. Bene: questa tendenza distruttiva sembrava inalterabile fino a qualche mese fa. Grazie al lock down siamo stati costretti (o piuttosto siamo ora abilitati) a ripensare il processo collettivo di coordinamento delle attività secondo una finalità che non sia più espansivo-accumulativa, ma che sia essenzialmente centrata sul principio dell’utile, del socialmente necessario.
Grazie al lock down siamo stati costretti (o piuttosto siamo ora abilitati) a ripensare il processo collettivo di coordinamento delle attività secondo una finalità che non sia più espansivo-accumulativa, ma che sia essenzialmente centrata sul principio dell’utile, del socialmente necessario.
A me sembra che, anche se ha abitato diverse latitudini, Bifo sia un soggetto civico ontologicamente bolognese. Ma sono tempi strani: si immagini cittadino milanese... In questi giorni vivrebbe, qui, al vertice del paradosso di cui stiamo parlando: dal 2015 dell’Expo internazionale abbiamo vissuto cinque anni al top of the pops, nell’esaltazione della leggenda di noi stessi: la città che corre verso il futuro, la prima, la più veloce. Poi, improvvisamente, Milano si è schiantata contro il suo alter ego: tempo sospeso, distanziamento sociale, metrò vuota e addirittura le multe ai runners. La città ha attraversato un profondo stato confusionale, senza partorire alcuna idea veramente nuova. Ora in molti stanno semplicemente riprendere il business as usual. Ma realisticamente possibile fare finta che non sia successo niente?
Se me lo concede vorrei dirle che io mi sento molto milanese. Ho vissuto a Milano alcune delle esperienze per me più significative, fin dal 1969, quando ho passato i mesi dell’autunno davanti ai cancelli dell’Alfa Romeo e dell’Autobianchi di Desio. Negli anni ’70 ho vissuto per molto tempo a Milano, ho passato molto del mio tempo nei locali della Calusca dell’indimenticabile amico Primo Moroni, e negli anni successivi al 2004 ho insegnato per dieci all’Accademia di Brera. È vero che in gran parte l’anima milanese è segnata da un certo spirito lavorista che qualche volta mi infastidisce, ma non credo che a questo si possa ridurre la milanesità.
Per rispondere alla sua domanda: il business as usual non tornerà perché l’usual non sappiamo più come ricomporlo. Dobbiamo inventarci una nuova combinazione degli elementi cognitivi, psichici, affettivi, di cui la socialità è composta. In questo direi che il talento sperimentale di Milano potrà aiutare. Penso a recenti esperienze come quella di Macao. Ho seguito l’occupazione della Torre Galfa e poi le successive evoluzioni della comunità che è nata da quell’occupazione (brutalmente sgomberata per far posto agli interessi della speculazione finanziaria). Passando dalla sfera dell’immaginazione sociale a quella della sperimentazione tecnologica, artistica, monetaria, Macao è stato un esempio di quello che Milano domani potrebbe diventare: un esperimento di futuro frugale, egualitario e innovativo.
Passando dalla sfera dell’immaginazione sociale a quella della sperimentazione tecnologica, artistica, monetaria, Macao è stato un esempio di quello che Milano domani potrebbe diventare: un esperimento di futuro frugale, egualitario e innovativo.
In quella Cronaca della psicodeflazione che compone la prima parte del suo nuovo saggio citato lei scrive: “il virus è la condizione di un salto mentale che nessuna predicazione politica avrebbe potuto proporre. L’eguaglianza è tornata al centro della scena. Immaginiamola come un punto di partenza per il tempo che verrà”. Dunque continua a vedere una politica totalmente fuori gioco? E come ce lo giochiamo il ritorno dell’uguaglianza? Ma, poi, di quale uguaglianza stiamo parlando?
Quando dico che la vecchia arte della politica (o piuttosto la vecchia tecnica della politica) non è più attuale, voglio dire che la decisione volontaria non possiede più la potenza che ha posseduto nell’epoca che comincia con Machiavelli e finisce con Lenin. La complessità dell’universo sociale informativo e tecnologico è divenuta tale che la conoscenza razionale non è più in grado di esaurirla, di ridurla, e quindi di governarla. Di conseguenza la complessità si manifesta come caos che sommerge la soggettività cosciente e sensibile, inducendo panico, depressione, e rabbiose reazioni fascistoidi contro il sentimento di impotenza. Soltanto l’attivazione di facoltà diverse dalla volontà decisionista può permetterci di elaborare questa complessità caotica, rinunciando alla pretesa di dominarla.
Una domanda più diretta e più italiana: da quando è sceso in campo il virus, Matteo Salvini ha perso punti. Circola un vaccino antipopulista o è solo perché si parla meno di "immigrati"?
Poveretti, mi fanno pena coloro che pretendono di avere la potenza di governare il mondo decidendo con violenza chi può entrare e chi non può entrare. L’incompetenza sommata all’arroganza non hanno prodotto dei risultati molto buoni, a giudicare dal disastro della sanità lombarda. Lo stesso si può dire se consideriamo il disastro colossale prodotto dall’incompetenza trumpiana sommata all’arroganza neoliberale negli Stati Uniti d’America.
Questo non vuol dire che il pericolo del sovranismo aggressivo sia disattivato. Nei prossimi mesi e nei prossimi anni, se non si riesce a imprimere una svolta di tipo egualitario e frugale il collasso si trasformerà in un abisso di rabbia impotente. E la rabbia impotente produce fascismo.
Se non si riesce a imprimere una svolta di tipo egualitario e frugale il collasso si trasformerà in un abisso di rabbia impotente. E la rabbia impotente produce fascismo.
Altra domanda italiota: anche le Sardine nuotano maluccio nell’acqua nuova. Come mai?
Oddio non sono un esperto in sardine. Ho simpatia per il protagonismo giovanile, e soprattutto sono grato alle sardine per l’effetto mediatico con cui hanno saputo spiazzare la destra salviniana. Ma non credo che il problema che abbiamo di fronte sia quello di una riforma della rappresentanza politica, non credo che il problema sia quello di un potenziamento della partecipazione democratica. Il problema è tutto di contenuto, e riguarda il modello sociale che siamo in grado di costruire nella lunga fase che seguirà il collasso.
Veniamo ai temi ambientalisti e verdi, che ci sono molto cari. Nella cronaca del 28 febbraio annotava “La terra ha raggiunto un grado di irritazione estrema”. La pandemia è stata un castigo?
No, non è stata un castigo. Lo stesso Francesco ha detto che Dio non punisce i suoi figli, figuriamoci se la natura ha intenzione di fare del male a qualcuno. La pandemia è stata, ed è, un’apocalisse. L’apocalisse non è un castigo, è una rivelazione. Ha rivelato che non si può imporre un modello espansivo estrattivo e accumulativo a un ambiente fisico e psichico che ha raggiunto i limiti del collasso, e ha rivelato che è possibile ricostruire il sociale a partire dal principio dell’utile concreto, e non dal principio del valore astratto.
La pandemia è stata, ed è, un’apocalisse. L’apocalisse non è un castigo, è una rivelazione.
In Futurabilità, pubblicato in inghilterra nel 2017 e in Italia da Nero editions un anno dopo, lei invitava a “Guardare la bestia negli occhi”, specificando che in questi anni l’habitat preferito della bestia è stata la Silicon Valley, California. Ora, mentre si apre la caccia digitale agli asintomatici, quel suo invito a sfidare in modo nuovo l’impero della tecnocrazia... come si declina?
La tecnologia non è affatto il nemico dal quale liberarci, è piuttosto la potenza che rende possibile la riduzione della fatica di vivere e l’innalzamento della qualità dell’esperienza. Ma la tecnologia non si dispiega secondo linee immutabili, e gli effetti che essa produce si possono modificare. Essa può fornire gli strumenti per la caccia digitale agli appestati, per il controllo tecno-totalitario, ma può invece fornire gli strumenti per convivere con la complessità virale della natura. Questa alternativa non la può decidere né la politica, né le grandi corporazioni del digitale. La possono invece decidere milioni di lavoratori cognitivi che, dalla Silicon Valley a Bangalore, sono quelli che continuamente alimentano, rinnovano e trasformano le rete degli automatismi digitali.
A poco a poco... Apocalisse - La fine del mondo spiegata ai ragazzi, è il titolo del suo ultimo libro (Momo editore) che è anche un progetto didattico in aggiornamento continuo, dedicato ai tantissimi giovani scesi in piazza l’anno scorso per lottare contro l’inquinamento che ammazza il pianeta. Ora, maggio 2020, quel grande movimento green da che parte dovrebbe dirigersi, secondo Bifo?

Quando i miei amici Mattia Tombolini e Gianmarco Mecozzi mi hanno proposto di scrivere un libretto per giovanissimi mi sono messo in un’impresa che per me era fino a ieri impensabile. Non ho figli, e non sono in grado (forse non voglio) assumere un atteggiamento di tipo paterno nei confronti di chicchessia. Ho insegnato per decenni a ragazzi di età adolescenziale, ma ho sempre cercato di evitare di parlare con loro secondo un modello di tipo paternalistico. Mi sono immaginato allora che ai ragazzini è possibile parlare in maniera anti-retorica, usando l’iperbole, l’invettiva e l’ironia. Così ho scritto questo librettino e soprattutto ho fatto le deliranti illustrazioni che accompagnano il testo.
Il 15 marzo del 2019 ho partecipato alla grande manifestazione di Fridays for future, e mi sono reso conto del fatto che il linguaggio dell’ironia, dell’invettiva e dell’iperbole sono stati assimilati largamente dalla generazione che fin dai primi passi ha camminato nel territorio della rete.
Io non ho indicazioni da dare al movimento che emerse il 15 marzo, ma mi limito a constatare che quel movimento è del tutto consapevole del fatto che la ricchezza non consiste nell’accumulazione di capitale, e che il modello consumista estrattivo deve essere ripensato. Sono loro, i nativi digitali, che possono trovare il modo di riprogrammare la macchina cognitiva e tecnica globale secondo nuove linee di piacere e di ricchezza, sono loro che, nativi digitali, possono trovare la via che ci conduce fuori dall’ossessione virtualizzante, per scoprire il piacere di una più libera sensualità. È la scommessa politica fondamentale del tempo che viene.