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IL PRINCIPIO DI NON REGRESSIONE

Quell’impronta ecologica ridotta che abbiamo raggiunto in questi due mesi, non aumentiamola. Possiamo essere più lievi con questa terra



di Paola Brambilla Pievani

(Membro Commissione Valutazione Impatto Ambientale Ministero dell’Ambiente)




Mi sveglio, ma non sento rumori. La luce di maggio filtra dalle persiane sonnolenta e calda, quasi opaca e polverosa come in quella correzione fotografica di Instagram che accentua i toni caldi. Però… ora che ci penso è strano. Dovrebbe essere iniziata oggi la #fase2, quella del tutti fuori, tutti al lavoro, tutti per strada, sui mezzi, in auto per raggiungere l’ufficio, l’azienda, lo studio, la scuola, la fabbrica, i congiunti e chi più ne ha più ne metta, il frastuono, lo smog, il fumo. Ma non sento nulla. Anzi, adesso che sono più presente a me stessa, sento anche qualche schiocco di merlo dai cespugli del condominio di fronte e il trillo metallico del verdellino che è un po’ di giorni che avevo intravisto sull’antenna dell’abbaino di fianco, quando ho fatto quella sorta di birdwaching domestico per postare delle foto (peraltro indegne) sul contest dei ragazzi del WWFYOUNGLOMBARDIA.


Ripeto, c’è qualcosa che non mi torna. Sono le 8. Di solito, a gennaio, ero già fuori dal letto da più un’ora, dopo avere “colazionato” e imbarcato i ragazzi per la scuola, per bere un caffè di corsa e poi salire sull’auto o sul treno per inanellare una, due, tre riunioni di fila in altrettante diverse località: conferenze di servizi, incontri con amministratori locali, o con colleghi sparsi per i capoluoghi lombardi; oppure per discutere anche due cause al giorno, in due sedi diverse, come tanti di noi. Poi di corsa fino a sera, con percorrenze – quando infraregionali – mai al di sotto dei 400 chilometri al giorno. E rivedere i ragazzi e il mio uomo solo a sera, tutti carichi di stanchezza e dalla tensione delle emozioni concentrate, quando si condensa la voglia di rivedersi, il cazziatone doveroso di reprimenda per i compiti non sgabbianati su Didup e il miserrimo tentativo di cucinare qualcosa che abbia sapore oltre che sostenibilità e velocità: un mix che generalmente ti porta e entrare in collisione con chiunque, come le palline di squash degli anni ’80, adesso soppiantate – mi ha fatto notare la figlia n. 2 con un “ma mamma dove vivi!” – dal padel (che per me, n.d.r., era al massimo un tamburello giocato alla bisogna, come si fa in questi tempi, con casseruole).


Poi mi ricordo, all’improvviso. Ah certo, ma no, siamo già oltre! È vero: in studio avevamo deciso venerdì che potevamo andare avanti ancora con il lavoro da casa. In fondo è andata benissimo finora, ci siamo svegliate alle 8 insieme ai cuccioli, piccoli e grandi, per fare colazione insieme e poi ognuno ha lavorato dal suo pc o seguito le lezioni dallo smartphone; che finalmente a qualcosa serve questa multifunzionalità dell’aggeggio, non solo per fargli vedere le serie di Netflix quando sono a letto, di nascosto, ma te ne accorgi lo stesso perché ti arriva la notifica dell’utilizzo su un altro device.


Abbiamo deciso di non passare subito alla modalità “rush” per vedere se riusciremo a portare con noi, anche nella normalità, questa modalità slow che in fondo non ci dispiace. Ci alterneremo quando servirà davvero una riunione in presenza o una discussione particolarmente efficace, ma per ora possiamo e vogliamo andare avanti ancora così, e non perderci questi frammenti di adolescenza dei nostri figli che si consuma così in fretta. Per carità, c’è anche il brutto della diretta, il gatto che cammina ostinatamente sulla tastiera (ma l’appPawsense ha risolto anche questo inconveniente), il litigio per la videocam che rende meglio l’immagine, l’impossibilità di renderti ectoplasma nel clou delle liti domestiche, ma il resto funziona. Forse ci voleva questa pandemia per dematerializzare finalmente tanti processi, compresa la Cassazione, ed evitare il consumo di carta e di CO2 per spedire valige di carta a Roma e nei vari uffici.


Suona il campanello nella casa di fianco. Alla mia vicina, anche se è finita l’emergenza, la rete di quartiere continua a portare la spesa a casa. Fragilità emerse e palesate senza un carico vergognoso di imbarazzo - complice la situazione di crisi collettiva - ora sono finalmente un impegno comune, che continua sulle ali di quella meravigliosa solidarietà che abbiamo riscoperto, a partire dal nostro vicino, sino alla nostra città, alla provincia – la nostra, la più funestata del paese – e a chi come noi, anche più lontano, ha vissuto una grande tragedia.


Nei parchi si entra anche oggi, il giorno dopo, in punta di piedi, perché abbiamo capito la sacralità del verde e della natura e non vogliamo perderci lo spettacolo più bello del mondo, gli scoiattoli, i ghiri, i picchi, le cicogne ritornate nel verde urbano, una vita diffusa che stavamo per spazzare via per colpa della nostra cieca ingordigia di nulla.


Abbiamo capito che possiamo vivere con meno, che possiamo panificare in casa e riutilizzare quasi tutto, forse per la prima volta abbiamo visto anche i nostri rifiuti ridursi miracolosamente (mascherine e guanti a parte), e forse qualcuno di noi ha anche compreso che lo spillover nasce dall’ubrys umana di non aver compreso l’importanza straordinaria della protezione della biodiversità, in particolare delle specie selvatiche e dei loro habitat. Sono infatti, questi ultimi, una specie di “cordone sanitario” che mantiene confinati al mondo animale virus, batteri e patologie che esauriscono in organismi più resistenti il loro desiderio di replica all’infinito e di conquista, come dice il giovane e acuto Telmo Pievani.

In questi giorni, in un piccolo Mini Corso on line di diritto dell’ambiente organizzato per i giovani di WWF Young ma aperto a tutti e gratuito, ho spiegato che questa pandemia, come tante altre, ci indica una strada, una soluzione: lottare per una reale protezione degli ecosistemi e della fauna selvatica, e proteggere il benessere animale (anche negli allevamenti), ripensando tra l’altro alle cause della riduzione degli habitat che vede il consumo di proteine animali – e gli allevamenti intensivi - ai primi posti.


Ecco che nella fase2 allora ci possiamo fare guidare da un principio cardine del diritto internazionale dell’ambiente, che è il principio di non regressione, su cui ha scritto pagine semplici e bellissime il grande professore Tullio Scovazzi: mai ridurre il livello di tutela ambientale che abbiamo raggiunto.


Io credo e spero che si possa applicare anche a livello quotidiano, nella dimensioni individuale della nostra vita: quell’impronta ecologica ridotta che abbiamo raggiunto in questi due mesi, non aumentiamola. Possiamo essere più lievi con questa terra.


Ecco, si è parlato tanto, negli ultimi convegni a cui ho partecipato “in carne e ossa” prima del lockdown, come nelle osservazioni scritte per WWF a quattro mani con Cittadini per l’aria al PGT di Milano, delle Nature Base Solution, capaci di rendere la città – luogo di vita di quasi 2/3 della popolazione mondiale – resiliente e meno ecofagocitica; abbiamo proposto anche dei nuovi standard ambientali: natura e fauna per abitante o per mq, in luogo di quelli vecchi calcolati in parcheggi. Si chiamano Biotope Area Factor. Ora, possiamo ripartire da quelli che sono rimasti, che abbiamo già, che si sono salvati e che in questi due mesi sono rifioriti.


Sono squarci di natura, nicchie ecologiche di resistenza capaci di ridiffondere la bellezza e la varietà della vita anche oltre quegli spazi marginali in cui erano sopravvissuti.


Mi piace pensare allora che così sia accaduto anche a noi: in fondo abbiamo scoperto che sotto le ceneri di una globalizzazione banalizzatrice era rimasto il germoplasma dei nostri valori profondi, ed abbiamo riscoperto e coltivato queste migliaia di piccole nicchie di comunità. Abbiamo ritrovato i valori della famiglia, dell’affetto, della solidarietà, dell’aiuto, della pazienza, della tolleranza e del bene comune, e li abbiamo coltivati, come un fiore o un animaletto raro. Non possiamo e non vogliamo tornare indietro.


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