
di Mauro Borella
Domande sulla politica urbanistica di localizzazione e delocalizzazione a Milano
Tutto inizia un giorno del 1980 quando qualcuno ha una prima idea, perché non trasformare una grande area pubblica in un’area privata, idea che non è così originale. Assistiamo ad un inventato dialogo tra speculatori “Perché non ci prendiamo la vecchia e pubblica Piazza d’Armi, ormai diventata una moderna Fiera Campionaria e la trasformiamo in uno spazio privato appetibile per posizione al mercato e alla speculazione edilizia? Come? Facile, basta spostare al di fuori di Milano la Fiera Campionaria e chiamarla FieraMilano, oltretutto bonifichiamo con soldi pubblici un’area industriale altamente inquinata da olii e petrolio, sai gli argomenti ci sono: la Fiera in città crea confusione, traffico e poi non c’è logistica, inquinamento e poi…e poi.”. Strano che oggi la stessa situazione si stia vivendo a San Siro ma nessuno propone seriamente lo spostamento dello stadio all’esterno di Milano. Chi vive o ha vissuto in questa zona sa che San Siro è un’area completamente soggiogata e ostaggio delle attività calcistiche e dei tifosi, compreso per esempio il fatto di non riuscire ad arrivare a casa durante l’ingresso e l’uscita delle partite o dei vari festival musicali. È anche una zona che ha già visto cambiare e saturare il quartiere grazie a pesanti speculazioni in zona a partire da quella di via Pinerolo verso via Harar negli anni ’70, che ha demolito una serie di abitazioni popolari, o quella che ha realizzato ville signorili iniziata su via Ippodromo sempre negli anni ’70 e proseguita in varie fasi con condomini fino a via Natta e via Montale, per poi passare alla grande speculazione che ha saturato di edifici alti l’area tra via Pinerolo e via Patroclo. Il tutto senza alcuna previsione urbanistica generale dei carichi e dei servizi dovuti alla grande densità abitativa. Infatti il problema è sempre questo, senza alcuna previsione degli impatti sulla città si permette l’edificazione e si satura Milano di case e ovviamente di caldaie e di auto e poi si fanno dichiarazioni pubbliche riguardanti previsioni ecologiche per riduzione di inquinamenti vari. In ultimo si voleva sostituire il vecchio Palazzo dello Sport crollato nel 1985 con un nuovo edificio non solo sportivo, ma come oggi, con plurifunzionalità, un centro commerciale, albergo, uffici e altro, su progetto di Virgilio Vercelloni e Aldo Rossi.
Come sempre la politica “interessata” sposta il problema per cui non si decide tra fare o non fare qualcosa, ma se fare in un modo o in un altro. Nel caso di San Siro lo stadio deve rimanere dov’è, per cui ci viene consentito di scegliere con dichiarazioni di democrazia tra tipo A o tipo B, ma deve rimanere sempre a San Siro. Possiamo pensare allora che probabilmente lo stadio ha la funzione aggregante di varie voci urbanistiche e di diverse destinazioni d’uso, come cavallo di Troia per inserire una serie di attività, dal commercio alla residenza, che con il calcio hanno poca relazione, infatti se le cubature consentite saranno quelle da piano regolatore e non quelle della legge sugli stadi vedremo che non si farà. Infatti analizzando i dati della crisi del calcio italiano la soluzione passa dalla crescita di importanza del marketing e soprattutto si sono ricercate costantemente nuove risorse finanziarie, in particolar modo acquisendo la consapevolezza della necessità di sfruttare fonti di ricavo diversificate, tra le quali lo stadio di proprietà è una voce importante. Nella macroarea relativa agli incassi da matchday, si può notare che le società italiane, Juventus, Milan, Roma FC, non riescono a competere con gli incassi fatti registrare per esempio da Real Madrid, FC Barcellona, Manchester United. Ciò è dovuto almeno a due fattori, le minori dimensioni degli impianti italiani e al fatto che la gestione dello stadio non è di diretta competenza delle stesse società che vi disputano le partite; questo comporta per le società maggiori costi (spese di gestione, canone di locazione, ….) e minori ricavi (impossibilità di una gestione con profitti degli spazi interni ed esterni dell'impianto) che non sono coerenti con logiche economico-aziendali ed imprenditoriali di cui dovrebbe avvalersi una società di calcio che punta ai vertici nazionali ed europei.(dati da: AAVV, All to play for Football Money League, DELOITTE , 2014. pag. 9, pagg. 23-24, pagg. 30-34).
Ma questa non è la vera questione, la questione è sulla base di quali argomenti, scelte di strategia o scenario urbanistico si decide di localizzare in città o di delocalizzare al di fuori della città?
Per esempio: perché parte dell’Università Statale, i dipartimenti scientifici, devono finire a Rho-Pero e la Bocconi restare in città? Oppure sempre l’Università Statale, spostarsi, come già fatto, a Bicocca e invece l’Università Cattolica ampliare le proprie strutture edilizie nel centro o semi-centro di Milano vicino alla sede storica?
Perché spostare Veterinaria da Città Studi e portarla a Lodi prima e poi anche a Rho-Pero? E ancora perché spostare parte dell’Accademia di Brera in un’area “dismessa” e inquinata dalle Ferrovie a “Scalo Farini” e non posizionarla in uno dei tanti edifici pubblici comunali vuoti in città, che invece sono lasciati decadere per poi esser venduti a privati che li abbatteranno per costruirne di nuovi?
Perché voler spostare due grandi ospedali, San Paolo e San Carlo, dalla corona urbana a fuori città e perché cominciare a ventilare lo spostamento degli uffici comunali da Via Bergognone a Rogoredo?
E poi cosa porteremo dentro la città al posto degli edifici e delle attività spostate? Quale definizione di identità urbana e visone urbanistica guidano l’iniziativa finanziaria e speculativa che oggi è onnivora e onnipresente in città?
C’è una specie di schizofrenia nella realizzazione urbanistica di Milano, come sostengono alcuni ricercatori, il centro città non esiste più perché l’intensità delle interazioni non dipende da un centro essendo la localizzazione delle attività dipendenti da un modello a rete. Secondo De Matteis “la centralità da attributo di singole località (città) diventa attributo della rete. E poiché ogni città può appartenere e più reti di relazioni funzionali, non coincidenti tra loro, la città come “località centrale” perde la sua identità territoriale e si scompone in tanti frammenti quante sono le reti da cui è attraversata” (1), ma per la vecchia rendita fondiaria il centro città è sempre fondamentale.
Anche nelle nuove proposte, da Citylife al Centro Direzionale di piazza Gae Aulenti, c’è stata una visione di polarizzazione esclusiva (centro direzionale, polo tecnologico, fiera campionaria, centro commerciale, ecc) con la realizzazione di isole urbane che non hanno rapporti con la città esistente ma solo attraverso logiche di mercato. Scelte che non hanno rappresentato occasione di riqualificazione del denso tessuto residenziale e sociale esistente, bensì solo la possibilità di realizzare uffici e altra residenza (di solito non popolare) e grandi spazi commerciali (che dipendono dalla centralità della posizione), senza sviluppare nuovi centri autonomi decentrati nella tradizione del policentrismo dei nuclei che hanno formato storicamente Milano. Queste sono aree generalmente di origine pubblica che, edificate, hanno impoverito la città, invece avrebbero dovuto e potuto aumentare l’articolazione urbana: guarda caso, ad esempio, nell’istruzione universitaria, nel decentramento amministrativo in aree “centrali”, nel turismo, nella sanità e nella salute pubblica contribuendo ad una strategia di differenziazione con interessanti ricadute economiche per attività, aree attigue e non solo per la rendita fondiaria ed edilizia. Oltretutto la “famosa” Città Metropolitana non è contemplata perché nelle nuove aree rese edificabili non si cerca di creare dei terminali di interfaccia, punti di naturale gravitazione e di interscambio con la parte esterna o la periferia di Milano, dei suoi flussi e delle sue direttrici di lunga percorrenza o “ambasciate” di altri paesi o territori, locali sia nazionali che internazionali, riuscendo forse a evolvere la città dal concetto di “smart” (intelligente) al concetto di “wise” (saggia).
Sono aree in cui rimangono comunque” interpretazioni della città indotte dalla pressione immobiliarista che punta su quella immagine di modernità, su quello scenario di grattacieli tipo (suggestioni finalizzate anche al consenso politico-amministrativo) senza i quali si dice, ad esempio, che Milano rimarrebbe esclusa dal novero delle capitali mondiali”. D’altronde “La risposta positiva della gente a queste iniziative testimonia che la domanda di identità collettiva è così forte da accettare anche un’offerta basata su stereotipi ed esplicitamente strumentale ad iniziative commerciali.” e speculative (2).
La crisi della pianificazione e della gestione urbana che sta caratterizzando i tempi recenti, dimostra la necessità che “la gestione della città odierna richiede capacità progettuali ed organizzative pari e forse superiori a quelle del passato, ma in forme diverse” (3). Siamo passati dalla battaglia per le aree dismesse per la decadenza della vecchia base produttiva a quella per le aree “forzatamente dismesse”, che attualmente non comporta un ridisegno urbano oltre gli standard urbanistici obbligatori (verde e servizi essenziali per i bisogni quotidiani) in qualcosa d’altro che in qualche modo contenga: identità, innovazione, qualità ambientale e della vita e, perché no, anche economia.
Siamo passati da una stagione di lotte, discussioni, di grande pubblicistica sulla città e sul suo futuro ad una assenza di dibattito, controllo e partecipazione sociale nella costruzione delle nostre città, certo complice è la debolezza della politica, ma anche la ricercata strategia di esclusione e addormentamento progressivo della controparte, una cittadinanza oggi sempre meno interessata alle visioni sociali e sempre di più a quelle personali. Per queste logiche la comunicazione, con grande spiegamento di stampa e televisioni è necessaria perché una particolare immagine di un luogo diventi importante quanto e più della sua realtà, in un percorso che si sviluppa non per illustrare e decidere, ma come propaganda strategica che ricerca la costruzione di un consenso per decisioni già prese altrove, anche fuori dall’Italia.
Ma la storia dell’evoluzione umana è tutta di “reazione al contesto” e “scambio d'informazioni” quindi non ci resta che reagire e scambiare informazioni per poter sopravvivere in un mondo dove la difficoltà di comunicazione è dovuta alla stupidità o alla cupidigia. Reagire al contesto come atto sociale è una azione di sopravvivenza e una presa di coscienza per soddisfare una volontà di uguaglianza.
1 De Matteis Giuseppe, La scomposizione metropolitana, in: Atlante metropolitano, Quaderni di Lotus,15, Electa, Milano, 1991, pag 30
2 Canella Guido, Milano Zona 2, 1987, Comune di Milano, pag.172
3 Canella Guido, Milano Zona 2, 1987, Comune di Milano, pag.172