
di Stefano Golfari
L’unica certezza è che si tratta di zoonosi. Niente sarebbe accaduto, la pandemia non sarebbe esplosa, se, all’origine, un animale non avesse “passato” il virus a un essere umano. Poi il virus ha imparato a trasmettersi anche da uomo a uomo e ora noi temiamo noi, mentre corriamo disperatamente a soccorrerci dagli gli effetti di una causa che c’è ignota. Ma se la cura non arriva alla causa prima, anche i provvedimenti più restrittivi non possono essere risolutivi. Con assai maggiore attenzione avremmo dovuto seguire la ricerca del “paziente zero”, che invece è fallita senza troppe domande. Ancor meno sembra interessare all’opinione pubblica l’indagine sull’“animale zero”, pur essendo lì il vero inizio della assurda tragedia che viviamo. Perché? Perché fino ad ora il sospetto è caduto, frettolosamente, su un bestiario esotico di animali lontanissimi dalla nostra vita, dalle nostre cucine e dalle nostre coscienze: i chirotteri rinolofidi delle caverne dello Yunnan , il pangolino, il cobra cinese, il bungaro fasciato, lo zibetto. Sintomatica la (pessima) battuta del governatore del Veneto, Zaia: roba da cinesi… Approfondendo appena un poco, invece, i confini geografici e le barriere culturali si superano e si confondono: nessuno, nessuna ricerca scientifica, ha svelato dove sia avvenuta la “zoonosi” e quale sia la specie “ponte” che ci ha contagiati. Nessuno ha risolto il caso. Molti citano il pipistrello, ma al pipistrello ci si arriva, per ora, soltanto per similitudine con quanto accadde per la SARS (Severe acute respiratory syndrome) nel 2002-3. Ma, si badi: anche ammettendolo per certo (e certo non è) l’indagine di nuovo si riapre, essendo escluso il passaggio diretto pipistrello-uomo per la mancante compatibilità fra le proteine di superficie del virus Sars e i recettori delle cellule umane, secondo le ricerche della maggioranza degli scienziati. Inoltre, chi non è così assertivo sulla nostra diversità dai pipistrelli, considera comunque altamente improbabile una pandemia originata soltanto da quelli. Tant’è che per la SARS 2003 si è documentata l’ipotesi dei viverridi come specie intermedia e per la MERS del 2009 quella dei dromedari.
Quando questa nuova Sars è esplosa, è ripartita la caccia all’animale-ponte e, a Wuhan, l’indice è stato puntato sul wet market cittadino, con i selvatici in gabbia e il macello on-demand accanto. La Cina ha chiuso il mercato di Wuhan il 1° gennaio e poi è corsa a bandire – provvisoriamente – il commercio di selvatici, il che – se definitiva – è un’ottima scelta per gli animali e per tutti noi. Ma, intanto, una ricerca curata da un vasto gruppo di studiosi delle maggiori istituzioni mediche e scientifiche cinesi, e pubblicata su The Lancet il 15 febbraio scorso (Clinical features of patients infected with 2019 novel coronavirus in Wuhan, China), ha smentito l’ipotesi wet market come luogo di origine del’epidemia: il primo soggetto contagiato è da datare al 1 dicembre (non all’8) e lui, come altri 12 casi sui primi 41 presi in esame, non c’entra niente con il mercato del pesce di Wuhan. La spiegazione più accreditata ora è che il COVID-19 sia stato portato al mercato da persone inconsapevolmente già infette, il che “scagiona” il pangolini, i cobra e gli zibetti. Dunque, prestando fede agli scienziati, se la logica non è un’opinione, occorre a questo punto trovare un animale che non stava al mercato dei “selvatici” ma che, volente o nolente, ci frequenta. Gatti e cani? Vengono tendenzialmente esclusi dagli scienziati: c’è un controverso caso al contrario (dall’uomo all’animale) ad Honk-Kong, dove un pomerania potrebbbe essere stato contagiato dalle coccole della sua proprietaria malata di Coronavirus, ma i sintomi sono lievi: si attendono gli esami del sangue per le analisi degli anticorpi. Per ora “le precedenti esperienze con la SARS suggeriscono che cani e gatti non si ammalano e non trasmettono il virus all’uomo” risponde al South China Morning Post l’infettivologa Vanessa Bars della City University di Honk Kong. La pista scientifica, dunque, si allontana anche dagli animali da compagnia. Vi vengono in mente altre tipologie animali? Pensa che ti ripensa, qualche testa brillante potrebbe magari anche focalizzare che ci sono centinaia e centinaia di milioni di animali che l’uomo alleva intensivamente in tutto il mondo, per mangiarseli, ed è ben noto e dimostrato che il martoriato corpo di quelli fa da incubatore ai virus epidemici. Quando poi esplode la malattia, l’ammasso la amplifica. Da anni la popolazione umana del mondo cresce, la richiesta di carne cresce, e cresce il rischio.
Il 22 gennaio scorso la Guardia di finanza e l’unità sanitaria locale euganea, la numero 6 (la stessa di Vo’) sequestrò un carico di 10 tonnellate di carne suina ben nascosta nel sottofondo di un tir che l’aveva caricata al porto di Rotterdam e poi l’aveva portata a Padova, nei capannoni della zona industriale, a un grossista cinese. La carne proveniva dalla Cina ed era diretta a un circuito di ristoranti che si preparavano a festeggiare il capodanno cinese. Fu immediatamente distrutta, bruciata, perché considerata infetta. Anzi, le autorità sanitarie e il Questore la ritennero così infetta da non dar tempo neanche di svolgere delle indagini di laboratorio per chiarire cosa precisamente contenesse. Il che, anche stona: come mai tanta fretta? Prima del nuovo Coronavirus, le nostre aree agricole temevano come il demonio l’arrivo dalla Cina della peste suina, che là ha sterminato (morti di peste o uccisi in modi orribili) quasi un terzo dei loro maiali. Fate conto che la Cina tiene nei suoi allevamenti la metà del totale mondiale di suini, un numero pazzesco: circa 500 milioni di maiali. In Lombardia abbiamo circa la metà del totale italiano: tutto è relativo, rispetto alla Cina, ma sono tanti comunque: 4 milioni e 300mila. In provincia di Brescia abitano più suini che persone, queste ultime però più confortevolmente, e nella piana padana condivisa fra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte si alleva l’80% del suino italiano. Se ne macellano ogni anno quasi 12 milioni di capi, con il macello più grande l’Europa situato a Ospedaletto lodigiano, ma ciononostante il 40% della carne suina che mangiamo proviene dall’estero: importiamo un miliardo di chili di carne suina fresca e congelata e l’idea che sia meglio obbligare chi ce la propina a indicarne l’origine con una etichetta, ha ottenuto il via libera, dopo anni di chiacchiere nella conferenza Stato-Regioni, neanche tre mesi fa (a metà dicembre) e chissà se funziona… particolare che sarà opportuno ricordare a chi vi impartirà la prossima lezione sulla superiorità dei presidi igienici e veterinari del made in Italy.
Dopodiché c’è il mercato illegale internazionale, gestito da grosse organizzazioni criminali, come l’episodio di Padova dimostra, che si trascina dietro tutto il peggio che c’è in termini di crudeltà, inquinamento e malattie. La peste suina non è ritenuta trasmissibile all’uomo (è un virus a DNA strutturalmente diverso dal SARS), ma l’influenza suina invece sì: fra il 2009 e il 2010, partendo dagli allevamenti messicani, un sottotipo del virus H1N1 in mutazione si rese responsabile della morte di 18.449 persone in tutto il mondo, ma il dato OMS (Organizzazione mondiale della sanità) è ritenuto parecchio sottostimato, e in ogni caso non è finita: le cronache del Cittadino di Lodi ci raccontavano ad esempio, il 17 luglio scorso, degli 8 pazienti ricoverati in terapia intensiva negli ospedali d’area, incluso quello di Codogno. E La Gazzetta del mezzogiorno il 27 febbraio aggiungeva ai timori per l’arrivo, dal nord, del Coronavirus, la tragica notizia di un morto a Messina, all’ospedale Papardo, per influenza suina: un sessantacinquenne originario di Lipari, broncopatico. Vero che il virus influenzale H1N1 ha imparato, proprio come il SARS-CoV-2, a passare anche da uomo a uomo, il che espande esponenzialmente le possibilità di diffusione fra di noi, ma sempre a partire da una originaria la zoonosi, che qui nel primo passaggio coinvolgerebbe gli uccelli. Come avvenne e avviene in quella che più specificamente è detta influenza Aviaria da virus H5N1, morbo che ancora a fine gennaio, mentre a Wuhan era già sconvolta dal nuovo Coronavirus, in un’altra città cinese, Shaoyang, faceva strage di polli: 4.5oo su 7.800 in un allevamento, e 20.000 abbattuti nella provincia di Hanan. I diversi tipi di virus influenzali fanno parte della famiglia Orthomyxoviridae (virus RNA a singolo filamento negativo), che è separata e distinta da quella dei Coronavirus, la Coronaviridae (virus RNA a singolo filamento positivo). Ma, nondimeno, i Coronavirus infettano pure loro i suini, i polli e i bovini. Vi traduco un testo che trovo su Feedstuff, uno dei portali del business internazionale di carne da allevamento, redatto a cura di Heather Simmons che è direttore associato dell’ Istitute for infectous animal disease, la grossa struttura che il governo USA ha creato nel 2004 proprio sulle malattie animali:
Coronavirus nei bovini: nei vitelli, la diarrea si verifica comunemente negli animali di età inferiore alle tre settimane a causa della mancanza di anticorpi quando il vitello non riceve abbastanza colostro dalla madre per sviluppare l’immunità. La gravità dei segni clinici dipende dall’età del vitello e dal loro stato immunitario. Il morbo è spesso notato dai produttori nei mesi invernali, poiché il virus è più stabile nella stagione fredda. Anche nei nei bovini adulti le patologie sono soprattutto invernali. I segni clinici includono diarrea sanguinosa con diminuzione della produzione lieve, perdita di appetito e alcuni segni respiratori. I coronavirus dei bovini possono anche causare una lieve malattia respiratoria o polmonite nei vitelli fino a sei mesi. Il virus viene rilasciato nell’ambiente attraverso secrezioni nasali e attraverso feci.
Coronavirus nei suini: esistono più coronavirus che colpiscono i suini. Come i bovini, colpiscono il tratto respiratorio o gastrointestinale. Nelle scrofe e nei suinetti, il coronavirus respiratorio suino di solito non presenta segni clinici. Se si verificano segni clinici, potrebbe essere una tosse transitoria all’interno della mandria e la diffusione di questa malattia si verifica con metodi aerosol.
Coronavirus nel pollame: il virus della bronchite infettiva (IBV) è una malattia respiratoria in rapida diffusione nei giovani pulcini. I segni clinici nelle galline ovaiole comprendono riduzione della produzione, anomalie del guscio d’uovo e riduzione della qualità interna dell’uovo.
Mentre racconta queste cose su Feedstuff, il dottor Simmons (come molti altri fanno) ci racconta anche che il Coronavirus del maiale, della mucca o del pollo, non può passare all’uomo. Una affermazione su cui qualche dubbio è legittimo, direi, valutato che i Coronavirus sono virus mutanti e proprio di una nuova mutazione che ha innescato un passaggio animale-uomo che prima non si dava, siamo ora in cerca. Se i dubbi non vi bastano, valutate anche la ricerca scientifica dell’ Università dell’ Ohio e dell’ Università di Utrecht che nel 2018 hanno dimostrato come di Porcine Deltacoronavirus (PDCov), altra epidemia endemica negli allevamenti di molti luoghi nel mondo (anche in Italia) e identificata per la prima volta in Cina nel 2012, sia potenzialmente pericolosa pure per gli umani (Healio.com – Infectuos Desease News). C’è però una specifica importante: il COVID19, come il vecchio SARS, e come il MERS, è un coronavirus “Beta”, non “Delta”. Del Beta-Sars Coronavirus è documentato il passaggio inverso, da uomo a maiale, in una ricerca del 2005 commissionata da Chinese Academy of Sciences and Tianjin Institute of Animal Husbandry and Veterinary Science, la trovate in rete con il titolo SARS-associated Coronavirus Transmitted from Human to Pig negli archivi della National library of Medicine degli Stati Uniti. Tuttavia, il passaggio di un virus Sars-like da animali d’allevamento a uomo è considerato da parecchi scienziati possibile quanto quello già verificatosi attraverso lo zibetto e il cammello (che certo non è più vicino all’uomo del maiale del quale tentiamo addirittura di trapiantarci gli organi). Nella recente intervista a Peter Daszak su The Scientist Magazine, lo scienziato, esperto del tema (era nel team che per primo attribuì ai pipistrelli “Horseshoe” l’origine della Sars), dice:
“Molto è stato capito su come i coronavirus infettano le persone dagli animali, dal momento che abbiamo avuto alcuni eventi in cui i virus hanno compiuto il salto dagli animali alle persone, incluso dal bestiame. Per MERS, sappiamo che la vera chiave è sapere qual è il recettore delle cellule ospiti: cioè la proteina sulla superficie delle cellule a cui i virus si legano per invaderla. Quindi, se condividiamo lo stesso recettore della superficie cellulare che il virus utilizza nei pipistrelli o nei cammelli o nei suini, allora c’è il rischio che quel virus ci invada.”
C’è poi la ricerca più ardita, che ancora deve essere affinata, ma che ci mette – giornalisticamente parlando – sulla pista. A Boston ha sede la Replikins: è una azienda privata, una LLC (limited liability company), che si è specializzata nella prototipazione rapida di vaccini per la SARS H5N1 (influenza aviaria) e H1N1 (influenza suina). Replikins ha prodotto uno studio sulle somiglianze genomiche chiave tra campioni di virus provenienti da Wuhan e i dati provenienti da dozzine di rapporti pubblicati l’anno scorso sui virus animali a base RNA (come i Coronavirus SARS di cui il nuovo COVID-19 è stretto parente). Poi il dottor Samuel Bogovich, fondatore e proprietario di Replikins e biochimico di lungo corso, ha dato una interessante intervista raccolta da Boston 25News e ora disponibile via web in tutto il mondo:
“Non abbiamo ancora un confronto esatto di ogni singolo aminoacido nelle sequenze, ma il computer elenca virus rilevati già nei mesi dello scorso anno come virus Wuhan. Pur senza poter indicare precisamente quando tutto è iniziato, il software ci dice che la nuova forma virale era già presente parecchi mesi fa, prima dello scoppio dell’epidemia a Wuhan. Io ritengo, anzi, che la diffusione del nuovo virus non sia iniziata in Cina e che i cinesi siano piuttosto le vittime di una epidemia in cui ad avere un ruolo importante sono animali da allevamento. E, nello specifico, gli animali coinvolti direttamente nella trasmissione del coronavirus sono i maiali. Il COVID-19 è molto contagioso, l’epidemia sta accelerando. Il numero di nuovi casi ogni cinque giorni raddoppia, limitare il trasporto di maiali, potrebbe frenare la diffusione.”
Ora, personalmente attenderò riscontri più certi prima di convincermi che il maiale o qualche altro animale allevato intensivamente abbia un ruolo da protagonista, suo malgrado, in questa tragedia globale. La questione è grossa e grave, l’esempio di ciò che è successo in Cina con la Peste suina africana è paralizzante: conseguenze disastrose per l’economia del pork (come la chiamano gli americani), per la vita della gente anche, e fosse comuni per decine di milioni di bestie (i porcellini rosa che si vedono seppellire vivi in un video che, se avete stomaco, trovate su youtube). Riguardo allo specifico dei suini, poi, se è vero che Cina e pianura padana (e anche Corea) sono luoghi di gigantesco ammassamento, si valuti che l’epidemia ha in breve coinvolto in modo forte anche un paese rigidamente islamico come l’Iran, dove gli allevamenti intensivi di maiali non ci sono. Non mi sfugge nemmeno che, comunque, il vero pericolo, adesso, è l’infezione intra-umana, ed è prioritario agire per contenere quella. Ma l’accenno del dottor Bogoch al trasporto di animali mi porta alla domanda con la quale concludo: perché si ammalano i maiali, i vitelli, le mucche e i polli? In questi giorni di pericolo-virus, medici e virologi ci avvertono che la paura e lo stress abbassano le nostre difese immunitarie e ci rendono più attaccabili dalla malattia, più esposti al contagio. Di paura e di stress gli animali che alleviamo per portarli al macello ne sanno qualcosa. E scriveva The Guardian nel 2017:
La crescita del commercio di esportazione di animali vivi renderà più probabile la diffusione di malattie, hanno avvertito gli esperti. Quasi il 30% in più di suini, capre, mucche e pecore sono stati spediti, anche in aereo, e trasportati in tutto il mondo nel 2017 rispetto a dieci anni prima, il dato è della FAO. La cifra è destinata a crescere ulteriormente, in parte perché è ancora più economico spostare animali vivi rispetto al trasporto delle carni congelate, nonostante i progressi della tecnologia.
Insomma, eccettuato il caso improbabile di un contagio diretto da pipistrelli liberi in natura, e visto che la scienza per ora esclude dal rischio i più comuni animali da compagnia, appare verosimile che il virus abbia subito la mutazione che gli ha consentito di attaccare l’homo sapiens (?) nel corpo di un animale sottoposto a stress, a paura, a costrizione, a tortura, a minaccia di morte e a condanna eseguita. Una reazione animale, di cui possiamo incolpare solo noi. Se era un selvatico, era un selvatico cacciato, catturato e terrorizzato, oppure una specie a cui abbiamo invaso e distrutto l’habitat come in un crescendo globale abbiamo fatto in modo enorme, idiota e vergognoso. Se stava in un allevamento era uno dei 150 miliardi di esseri viventi innocenti che macelliamo ogni anno per farne bistecche, polpette o affettati. La FAO ha calcolato che nel 2050, continuando così, gli umani inghiottiranno 465 milioni di tonnellate di carne ogni 12 mesi che Dio manda in terra. Per il calcolo delle probabilità e con queste premesse non si capisce perché la scienza non corra a verificare che stia succedendo con i Coronavirus che si sanno presenti nelle povere bestie obbligate giorno per giorno al contatto stretto con i loro aguzzini umani, e costretti a lottare per la sopravvivenza con i loro simili, condividendo spazi angusti e sporchi per tutto il corso della loro breve vita. In quelle condizioni che una infezione virale anche lieve acquisti la forza di trasformarsi in epidemia letale è fra le cose che l’homo sapiens dovrebbe preoccuparsi di prevedere. Evidentemente non è stato così, e non è così nemmeno ora che la gente si ammala e muore intorno a noi. Temo però che in questa pazzia suicida, le ragioni del business della bistecca e del salame siano, ancora, le più virali.