
di Sandro Antoniazzi
Nel dopoguerra il problema del lavoro e dei lavoratori era certamente un tema primario: ne fa fede l’articolo 1 della nostra Costituzione. E questo riguardava tutti, la società civile prima ancora che i partiti e il sindacato.
Anche nel mondo cattolico il tema era molto presente; era facile sentire parlare di superamento del capitalismo e del ruolo fondamentale che avrebbe dovuto assumere il proletariato nella guida del paese. Così non c’era parrocchia ed oratorio dove non si tenessero corsi di formazione per formare i giovani alla questione sociale e anche per prepararli al confronto coi comunisti. Poi questo ruolo è passato in modo più appropriato a un’organizzazione specifica, le Acli, che negli anni ‘50 e ‘60 è stata una grande associazione cattolica nel mondo del lavoro. Per dare un’idea delle aspirazioni dell’epoca si può ricordare quello che era lo slogan delle Acli milanesi: “Ala avanzata del cristianesimo nel movimento operaio, ala avanzata del movimento operaio nel cristianesimo”.
Poi le scelte politiche delle Acli hanno portato allo scioglimento del legame tra le Acli e la Chiesa; scelte legittime e indiscutibili da entrambe le parti, ma a posteriori non si possono non vedere gli effetti negativi; riduzione delle Acli a una organizzazione tra le altre, quasi sparizione del tema lavoro dalle preoccupazioni della chiesa (che si è ridotta a formare degli “uffici”).
Così ci troviamo oggi, in un momento in cui il mondo del lavoro è letteralmente esploso, senza una presenza cattolica che, insieme ad altri, potrebbe portare un contributo serio e quanto mai necessario di riflessione. Sia il lavoro che il cristianesimo sono diventati oggi problematici e, in una certa misura a causa di una medesima problematica, che potremmo chiamare indicativamente, perdita di valori.
Partiamo dal cristianesimo. Prendo spunto da un episodio avvenuto ad un incontro delle scuole politiche-sociali diocesane al tempo del card. Martini. All’incontro c’erano pochissime persone e il prevosto scusandosi commentava:
“Qui la maggior parte delle persone frequenta la Messa, a Pasqua e a Natale la chiesa è strapiena, se abbiamo bisogno di riparazioni alla chiesa raccogliamo i soldi in una settimana o due. Ma per i loro affari, i loro rapporti personali/sessuali, le loro scelte politiche noi non contiamo nulla, fanno quello che credono”.
In altre parole, la religione va bene, è una cosa che può servire a unire la comunità e dunque va difesa e conservata, un po’ di religione e di spiritualità non fa male, purchè eviti di toccare i problemi della nostra vita dove decidiamo noi.
Ciò che in questo episodio si esprime a livello di scelte personali, è un riflesso di quello che avviene, organicamente e strutturalmente, a livello generale, della società intera. E’ ciò che i sociologi chiamano differenziazione funzionale, nelle società complesse, ogni campo, ogni settore, ogni disciplina, si specializza, si differenzia dalle altre. Questo processo è necessario per svilupparsi, ma la conseguenza inevitabile è la separatezza. Ognuno procede per la strada propria e tanto più si specializza, tanto più si separa, si isola.
L’eccesso di specializzazione è un problema per tutti (e spesso viene criticato, ad esempio in medicina), ma è particolarmente grave per la religione che ritiene di avere una proposta, un senso, che riguarda l’intera realtà. Invece la religione oggi non è più una realtà che ha qualcosa da dire a tutte le altre, ma una realtà accanto alle altre, una tra le altre.
Non è neppure considerata come la più importante. L’economia (che comprende il lavoro, il consumo, la finanza, il commercio internazionale), i mezzi di comunicazione (televisione, cellulari, computer), la scienza e la tecnica (basti pensare alla biotecnologia) sono vissute nella quotidianità certamente come più importanti. Se penso ai miei viaggi quotidiani in metropolitana, solo alcune persone leggono la Bibbia o il Corano o qualche libro, la maggior parte degli altri guarda facebook, messaggini e filmetti. Ma queste realtà così potenti che tanto determinano della nostra vita, non sono portatrici di valori; in genere ne sono del tutto prive, sono per così dire neutre, neutrali, avaloriali, proponendo solo traguardi quantitativi, cose sempre nuove, l’invito ad andare sempre avanti, ad avere di più, di meglio: non si preoccupano di avere riferimenti di valore, anzi rifuggono da questa opzione perché potrebbe allontanare possibili clienti, utenti, simpatizzanti. Ciò porta a una situazione di aridità, a una condizione antropologica particolarmente povera, dove l’unico criterio di scelta rimane quello individuale, ma che avviene in una situazione priva di riferimenti, in pratica in un deserto di valori.
Dunque in questo contesto la religione viene vissuta non solo come una sfera separata, un mondo a sé, ma anche, conseguentemente a “bassa intensità”. Così va bene a molti, perché consente una gestione comoda, a propria discrezione. Va bene a tante autorità religiose perché si sentono le uniche depositarie dello “spirituale”, va bene ai “laici devoti” perché consente loro ampia possibilità di espressione, va bene a molti politici perché è reso più facile l’uso strumentale. Ed è anche il modo di vita religiosa della maggior parte della gente.
Spesso si è critici a riguardo, nei confronti di una forma di religione dovuta prevalentemente alla tradizione e all’abitudine, ma a ben guardare non si tratta di una posizione irragionevole, perché se la religione conta poco nella realtà generale, perché dovrebbe e come potrebbe contare molto nella vita della gente?
Il pensiero di Papa Francesco è spesso incompreso proprio perché si pone in antitesi con questa realtà che è quella in cui viviamo. La sua è una critica esplicita di questa soluzione comoda, di questa soluzione al ribasso, di questo cristianesimo minimo, per riproporre la vita cristiana nella sua interezza. Si tratta di una scelta decisiva, radicale; rompere la separatezza tra la religione e gli altri aspetti della vita. Impresa semplicemente gigantesca nell’attuale situazione delle nostre società.
In questa prospettiva il Papa affronta i problemi, se così si può dire, sia dall’alto che dal basso; dall’alto perché non teme di affrontare queste forze ultrapotenti come l’economia mondiale e la scienza e chiede che cambino secondo una prospettiva umana (e quindi chiede una vera e propria trasformazione del sistema, ciò che fa saltare sulle loro poltrone milioni di liberisti). Dal basso perché ritiene che solo un movimento che parta dalla gente e dai popoli, dalle condizioni reali di vita, può portare a soluzione più giuste (da qui i suoi riferimenti a terra, casa, lavoro).
Per il Papa questi non sono discorsi sociali a sé stanti, non è quello che la chiesa ha da dire sul sociale (come appare spesso la dottrina sociale, un discorso morale aggiuntivo alla fede): per il Papa questi sono discorsi cristiani, di come essere cristiani nella società di oggi, nella società, nel lavoro. In sintesi, non è un discorso morale, è un discorso di fede.
E’ utile in proposito la lettura del Documento finale del Sinodo dell’Amazzonia (anche se non si tratta di un documento papale) al paragrafo 70:
“Per i cristiani l’interesse e la preoccupazione della promozione del rispetto dei diritti dell’uomo, sia individuali che collettivi, non sono facoltativi. L’essere umano è creato a immagine e somiglianza del Dio Creatore e la sua dignità è inviolabile. E’ la ragione per cui la promozione e la difesa dei diritti dell’uomo non sono un dovere politico o un compito sociale, ma anche e prima di tutto un’esigenza di fede, Noi non saremo forse in grado di modificare immediatamente il modello di sviluppo dominante, distruttore ed estrattivo, ma noi abbiamo bisogno di sapere e di indicare chiaramente dove siamo. E poi a chi apparteniamo? Quale prospettiva adottiamo? Trasmettiamo la dimensione politica ed etica della nostra parola di fede e di vita?”
Il Lavoro
Veniamo ora al lavoro, inteso sia come parte della normale vita quotidiana delle persone, sia come cifra di vita sociale (al lavoro si collega il reddito, il consumo, lo sviluppo delle tecnologie, il rischio di inquinamento, ecc..).
Il mondo del lavoro attuale è pieno di problemi, si trova in un momento di grande trasformazione. Già questo sarebbe un motivo di impegno sociale, un motivo per buttarsi nella mischia. Ma, come abbiamo visto, per i cristiani c’è un motivo in più: la possibilità di una vita cristiana autentica passa da qui, passa dal lavoro, dall’economia, dalla tecnica, perché sono queste forze, queste realtà che producono un deserto di valori e una condizione di vita che vanno affrontati.
Ciò significa che i lavoratori non hanno bisogno solo di risposte materiali, ma hanno bisogno che il loro lavoro e la loro vita abbiano un senso. Quindi questo impegno per ricostruire un senso al lavoro è tanto importante per il lavoro, per i lavoratori, quanto per il cristianesimo: si tratta di ridare un senso alla vita.
Ma non possiamo sostenere un’idea del lavoro in astratto, perché il lavoro non è un’idea, è una realtà.
Il valore del lavoro non può essere una pura idea teorica, deve essere una cosa che si può vivere, deve poter esprimere forme di vita concrete. E’ un lavoro ricostruttivo quello che si richiede oggi, perché le finalità che ieri davano valore al lavoro oggi sono superate.
Il valore del lavoro ieri consisteva: 1) nel fare il proprio dovere, comportarsi in modo giusto; 2) nel creare un avvenire per sé e per la propria famiglia (era un motivo di orgoglio realizzarsi mediante il proprio lavoro). Oggi il valore prevalente è la realizzazione di sé, quando è possibile.
E’ difficile oggi pensare di proporre un valore del lavoro di carattere universale, troppe sono le differenze presenti. Per ridare senso al lavoro occorre comunque, almeno in prospettiva, operare su questioni di fondo, con un salto di qualità rispetto alla situazione presente.
Alcune linee possibili sono le seguenti:
1) Poiché il deserto attuale di valori favorisce un individualismo estremo, occorre rafforzare e sostenere tutto ciò che è sociale: economia sociale, beni comuni, un sindacato che lavora per la vita collettiva e così via.
2) Il lavoro è concreto, quotidiano: il lavoratore deve poter avere un lavoro dignitoso, che esprima valore tutti i giorni. Qui il tema fondamentale è quello della partecipazione che pone sempre di più l’esigenza di una riforma sostanziale dell’impresa.
3) Perché il lavoro abbia un senso occorre operare in una società “giusta”, che tenda a fini condivisibili. Fare bene il proprio lavoro è importante, ma è importante farlo in un contesto coerente. Occorre dunque battersi per questo (aziende giuste, prodotti giusti, ambiente giusto, società giusta).
Tutto questo è un compito politico e sociale (sindacale soprattutto) di tutti gli uomini e proprio anche della concezione cristiana del lavoro, come servizio alla comunità, una comunità che non viva solo di interessi economici e quantitativi, ma anche di valori relazionali e spirituali.