Fuga da Milano? Perché no. Viva la campagna: distanziata e salubre. La Smart City non deve piangere gli smart-workers che se ne vanno: deve costruirsi uno Smart Country.

di Stefano Golfari
C’è una canzone di Gaber (Gaber andrebbe insegnato alla scuola dell’obbligo come un tempo si faceva con Manzoni) in cui si canta e si ricanta, fra l’ironico e il convinto:
“Vieni a vivere in città, che stai a fare in campagna?”
Su questo refrain è costruita tutta la storia della nostra modernità. Non ve la meno sui particolari, basti pensare alla giustificazione che diede un antagonista di successo come John Lennon quando si trasferì con Yoko Ono a Manhattan:
«Se fossi vissuto nei tempi dell'impero romano sarei vissuto a Roma. Dove se no? Oggi l'America è l'impero romano e New York è la Roma odierna».
Per motivi simili, oggi (ogni epoca ha i Vip che si merita) i “Ferragnez” stanno a Milano: l’impero romano da un po’ è decaduto ma Milano è la più newyorkese delle città italiane: lo spirito del tempo qui soffia potente. Ma che ci dice ora?
A questo interrogativo si è risposto fino alla noia che i tempi son cambiati, che il Virus ci costringerà a cambiare, che Milano deve cambiare strada. Ok, ma quando poi si prende in mano il navigatore il dito indice inizia a tremare: cambiare strada vuol dire meno gente, meno negozi, meno ristoranti, meno bar, meno centri direzionali, meno businessman, meno turisti, meno cittadini residenti. E’ logico: prima del Covid tutti questi meno a Milano erano più, prima il valore era attraente, centripeto. Ora è centrifugo, e contabilizzare la fuga da Milano col sorriso in faccia risulta assai arduo alla politica che, mentre si fa esploratrice di futuro, continua a far di conto con i suoi cittadini come si contano i voti: di più è meglio. E di meno fa piangere: i grattacieli di Citylife sono vuoti al 90% e la cosa mette tristezza. Ma poi, è un male? È un male aver imparato che esiste lo smart-working e la possibilità di vivere lontano dalla pazza folla che richiama il contagio? È, indubbiamente, una preoccupazione seria, sarebbe sciocco negarlo. La strada che cambia è è una strada comunque in salita, tortuosa, rischiosa…tuttavia (questo è il punto nostro, il consiglio e il progetto di MilanoAmbiente), se una quota degli attuali residenti si incammina sulla strada del lavoro a distanza, fuori Milano, be’, il sindaco dovrebbe seguirli.
Non equivocate: dovrebbe seguirli nel senso di occuparsene, assisterli, non abbandonarli. Sì, proponiamo che Milano si faccia carico (e si faccia vanto) anche di badare alla vita e al lavoro dei non più milanesi, che però continueranno ad essere connessi alla città, con il computer e con la testa. È possibile? È giusto? Visioniamo il tema: immaginiamo una sorta di gemellaggio fra Milano e un gruppo di piccoli comuni di un’area poco abitata esterna ai confini cittadini. La direzione più semplice sta verso sud: anche restando nei confini provinciali, ma soprattutto sconfinando in provincia di Pavia o Lodi ci si presentano caratteristiche invitanti, la prima delle quali è di colore verde. Un grande, ristrutturabile cascinale immerso nel verde, o un piccolo comune di antica piacevolezza ambientale sono quello che cerchiamo. Ma purtroppo chi è intenzionato ad abitare luoghi come quelli, (magari con la famiglia e i figli - pensate che bello - ma anche in formato single o solo in coppia, giovane o meno giovane che sia) deve scontare oggi una serie di difficoltà importanti. Elenchiamone alcune: strade dissestate e collegamenti viabilistici difficoltosi, soprattutto per ciò che attiene ai mezzi pubblici. Mancanza di infrastrutture digitali adeguate, cosa essenziale a chi lavora in distanza. Servizi medici e socioassistenziali miseri sul territorio e grandi ospedali fuori portata. Scuole, ma qui si apre un ragionamento a parte. Più in generale si troverà un’offerta culturale e ludica, che risulterà imparagonabile a quella disponibile in città (a una città come Milano soprattutto).E poi c’è la cura delle buone pratiche e degli interessi green che chi sceglie il verde non può non avere: la raccolta differenziata dei rifiuti è un sine qua non. Ma anche la cura degli animali domestici. Poi c’è anche da far conoscere al meglio il nuovo territorio ai nuovi abitanti, con gite, escursioni, momenti di aggregazione. Occorre inoltre adeguare e strutturale l’offerta alimentare e la ristorazione, lavorare sui prodotti tipici, offrire la possibilità di mangiare vegetariano o vegano se uno lo desidera e il tanto d’altro che si potrebbe aggiungere.
Ma andiamo a sintesi. In base alla più elementari delle leggi di domanda-offerta, a tutti questi servizi mancanti vien dietro la possibilità di offrirli. Certo l'operazione Smart-Country non può far capo solo al sindaco, al comune: coinvolge tutta la filiera di politica amministrativa che nel nuovo anno dovrà mostrare ciò che vale: oltre le città, e ciò che rimane delle province (ed ectoplasmi metropolitani), Regione, Stato, Europa sono i nodi decisivi della rete. Questo è un progetto adattissimo al Recovery Fund, in parte al Mes. E inoltre è da sviluppare come opportunità lanciata ai tanti privati che il Covid ha disoccupato o diversificato nel business. Però è un progetto a testata pubblica. Si tratta innanzitutto di pensare a una forma organizzata di una sorta di gemellaggio istituzionalizzato da due protagonisti: il comune di arrivo e il comune di partenza, cioè Milano. Milano non dovrebbe piangere, ma capitalizzare i cittadini che se ne vanno. Infrastrutturandone la nuova residenza grazie a iniziative pubblico-private o anche soltanto private ma pianificate a livello amministrativo. Secondo una regia che crei nuove opportunità di lavoro al seguito dei nuovi cittadini “extracomunali” che vivono altrove ma lavorano per la città. Certo anche sull’altro versante istituzionale, quello dei nuovi territori di residenza, si cercherà legittimamente di favorire occasioni di lavoro locale. Ma è solo una metropoli come Milano che ha la tempra per intestarsi un’iniziativa complessa e complicata come questa. Che però suona affascinante: si aprirebbe infatti l’opportunità di progettare queste piccole comunità, figlie della grande Milano e ad essa organicamente legate, come enclave di eccellenza sociale, a partire dai profili della sostenibilità e della vivibilità nuova. Si creerebbe anche l’occasione di circoscrivere, tracciare, analizzare tutte le problematiche legate a Covid-19 (e alle atre simili nel futuro) con l’obiettivo di farne aree a rischio ridotto.
La proposta sembrerà a molti utopistica, ma non a tutti. Grossi gruppi industriali hanno già deciso che lo smart-working e l’home-working iniziato con l’era Covid continuerà perché è il futuro, e la stagione della caccia ai grandi immobili in città può dirsi trascorsa o almeno sospesa per tempo indefinito. La città può tuttavia di nuovo farsi guida per l’avvenire, travalicando i suoi confini. Per modulare interessi immobiliari, infrastrutturali e servizi che non nasceranno più dentro la sua cerchia muraria ma a attraverseranno e la muoveranno ancora. Certo servono formule amministrative nuove. L’esempio di espansione amministrativa che già abbiamo, la Città metropolitana, è fallito proprio sul calcolo elementare che citavamo ad inizio articolo: solo i miei cittadini mi danno il voto. Ma soprattutto le nuove mentalità politiche che ci servono, sono quelle che non ragionano più di città o campagna, ma di Smart City e Smart Country.