di Stefano Golfari

Siamo troppo buoni. Dobbiamo essere più cattivi. Il mondo, malato e marcio, ci frega facile: e non cambia affatto. Neanche se ha il Covid. Tantomeno Milano. Anzi, Milano, ti conosco mascherina, è in realtà impegnata nella più strenua resistenza al cambiamento salutare antipandemico, visto che la città deve il suo successo exponenziale (misurabile a palate di euro) proprio ai paradigmi della globalizzazione consumista, che sono il nodo del problema. La pandemia è essenzialmente il prodotto del business senza limiti, dei viaggi intercontinentali a go-go e della sbagliata pianificazione alimentare che ci pretende tutti carnivori sul pianeta terra, il miliardo e mezzo di cinesi più i 6 miliardi del resto, innescando quell’usurpazione degli habitat animali (e degli animali stessi) che porta agli spillover. Quello è il modello di mondo marchiato COVID-19, quello è il nostro nemico. E contro un nemico che, mentre scrivo, ha già ucciso mezzo milione di innocenti, bisogna essere cattivi. No buoni. Anche e soprattutto a Milano, cattivi con il problema al top e cattivi con il problema al bottom. Per il top: l’idea tardo-newyorkese che la volontà di potenza dei businessmen debba sfidarsi a chi ha il grattacielo più lungo, va riesaminata con la massima severità. Nonostante la quale, purtroppo, ci resterà sul groppone l’orrore del dritto, dello storto e del gobbo che si assembrano al Portello. E Porta Nuova continuerà a guardare il presuntuoso dito indice di Unicredit Bank, invece della luna… ma tant’è. Dall’anno MMXX sia scritto in lettere di pietra: il palazzo gigante è il più insalubre degli edifici. E poi, costruire per chi? Per che cosa? L’espansione demografica o centro-direzionale della città è un argomento che la pistola a raggi laser del Coronavirus ha polverizzato in un amen, non funziona più come giustificazione a nessun obbrobrio. Perché la città non si espanderà e non si deve espandere. Deve invece trovare nuove forme interne, nuove dinamiche: ma più vuote e più pulite. I designer non la prendano di sguincio come è un po’ nella loro cifra, dovranno fare una scelta impegnativa: o col nemico Global o con la Resistenza Local. Questo è. Altro che quella vile “resilienza” di cui parlano tutti. La Resistenza è lotta partigiana contro l’oppressore straniero, è guerra e guerriglia per un mondo migliore. Se i milanesi non comprenderanno il tempo della Resistenza contemporanea, a che servirà costruire il museo nazionale della Resistenza del tempo che fu, il quale, fra l’altro, fucila alberi e impicca fiori? Nella stringente consecutio temporum su cui sindaco e assessore Maran non possono cincischiare, l’impianto che abbiamo qui tracciato loro (gratis) significa cose grosse: Milano deve fare tabula rasa di tutti i progetti messi sulla carta in epoca pre-Covid (a partire dal green-ring degli scali ferroviari) e affidarli ad architetti, urbanisti, paesaggisti e designer in grado di assumere la nuova forma-mentis. Altrimenti ci arrabbiamo. Perché fra le pochissime certezze a cui la scienza virologica è giunta, dopo intensi mesi di studio, c’è questa: i parchi servono. Servono i prati, gli alberi, anche qualche decina di metri quadri verdi in più sono roba preziosissima fra la ragnatela dei quartieri. Sono gli unici spazi di decompressione dove le distanze si distendono, finiscono di essere un problema, e si ricomincia a vivere. E “vivere” fra le diverse opzioni che abbiamo di fronte, non la butterei via. A disdoro degli immobiliaristi e per la gioia degli ecologisti abbiamo anche scoperto che si può vivere lavorando da casa propria, pensa te: padroni a casa nostra… Oppure a casa nostra, anche lì, i padroni? Già, com’è che mentre celebriamo (si fa per dire) i 50 anni dello Statuto dei lavoratori di Giugni e Brodolini, la rivoluzione del “lavoro agile” avviene senza sindacati, senza contrattazione, senza le importanti discussioni che vanno fatte anche su tutti i particolari del caso? Chi lo paga il computer nuovo? Che faccio se il capo chiama a mezzanotte?... Ma capite bene che se il lavoro da-casa e la scuola da-casa aumenteranno… be’ la città cambierà per forza. Pensate alla miriade di locali da spuntino e pausa-pranzo attorno agli uffici e alle università, pensate a via Festa del perdono… E non perdonateli più: volevano spostare quella meraviglia che è la nostra Statale nel parco-fantasma di Rho-Pero. Non lo avevano ancora capito che nel terzo millennio la funzione è diversa dalla posizione e gli stabili valgono per il loro valore intrinseco, per la storia che hanno, per quello che rappresentano da vuoti. Volevano spostare la Statale e nel frattempo la Statale è scomparsa, si è dematerializzata nella rete digitale che - ma da mo’ - è più avanzata di qualsivoglia Campus da cinemino paninaro anni ‘80. Che, scherziamo? Sì, scherziamo e sorridiamo anche se siamo incazzati come iene con le Cassandre della globalizzazione in fotocopia e coi maghi Otelma del consumismo inconsumabile: facce di gomma irriciclabile che già invece si riciclano, tentando di risalire la china dell’evidente esigenza di un gigantesco BASTA! Lo ripeto, c’è da imporlo con le cattive, perché quelli lì delle buone maniere se ne fregano. Ma non intendo solo quelli dell'Élite. Abbiamo anche un grosso problema col popolo, è lampante e lampeggiante anche se il populismo (l’altra pandemia virale) si rifiuta di notarlo. Notiamolo noi: oltre al top-level dello skyline, c’è da sculacciare il bottom dei bassifondi di bottiglia: BASTA! Basta con ‘sta mania dell’apericena a mani unte, santa Madonnina! Basta improbabili vassoiate di schifezze acchiappa-acchiappa e mojitos pestati per 6 affrettati secondi da un barman cocainomane che intanto serve spritz annacquati, tavernello dop e birra calda! Basta Mcdonald in divisa da pagliaccio e basta “street food” sul motocarro! Basta veleno adiposo, basta grasso che cola! Questa bulimia chip e naive va combattuta sul piano alimentare, sul piano sociale e anche sul piano estetico: è una cosa brutta. E guardate che penetra nel cervello: c’è una generazione di sciamannati che per dire “Bello” dice “tanta roba”!. E’ la sindrome dell’ “all can you eat”, è la moda da coglioni che ha condotto i più scemi a mangiarsi anche i pipistrelli, in Cina. E’ andata più o meno così da quelle parti, controllate. L’ “All can you eat” va vietato! Gli improbabili sushi bar vanno vietati! Le pizze di cartone vanno vietate! Sì, lo so che chi ha aperto un localino appena-appena sui Navigli oppure faceva il cameriere a Largo la Foppa e adesso sta in coda al Pane Quotidiano, se mi vede attraversare la strada mi caccia sotto… ma una mia eventuale degenza ospedaliera non risolverà comunque il suo fardello: dove c’è calca c’è malattia dice l’art.1 della nuova Carta costituzionale. E chiediamo all’autorità costituita di farlo rispettare, con severità. Chiediamo che si opponga un chiaro e secco NO all’illusione di tornare alla Milano dell’estate 2018, che non c’è e non ci sarà comunque, perché mancheranno i turisti stranieri. Riteniamo più onesto far sapere a chi già se lo dice da sé che i soldi facili con la ristorazione a Milano non si fanno più. Aggiungiamo che non-si-devono-fare. Basta! Basta alle multinazionali del ristoro che a Milano, New York, Tokio e Parigi propongono la stessa bistecca che si fa il giro del mondo. Diciamo basta e siamo contenti: perché rinunciare a quelle assurdità non è affatto penalizzante per noi clienti, non credete? Viva invece quella Milano-ristorazione che adesso con sacro timore misura un metro e mezzo di distanza da tavolino e tavolino e si domanda: come posso sopravvivere con il 40% della clientela? Questa Milano si fa una domanda che apre all’unico futuro che ci possiamo permettere, e per questo dobbiamo tutti aiutare a trovare una risposta credibile e positiva. Scendendo al pratico, pur non essendo un esperto del settore, monsieur de Lapalisse mi suggerisce che esistono solo 2 soluzioni al rebus: o aumentare vertiginosamente i prezzi (e accadrà, prepariamoci a città dannatamente più elitarie…) oppure ridurre altre spese: quelle degli affitti, quelle delle tasse, quelle per il personale e quelle delle materie prime. Riguardo a queste ultime però, me lo auguro, i ristoratori troveranno una clientela più attenta d’ora in poi a cosa si mangia e si beve (vero che l’argomento è stato finora scantonato dai virologi, ma ci arriveremo…). Soprattutto, però, voglio sperare che s’inneschi e faccia da volano un Modello-Milano nuovo - di questo in fondo sto parlando - che scommetta tutto sulla qualità dell’offerta, a partire dal cibo. Ma per fare accadere questa magia occorre agire sugli altri tre fonti di spesa: affitti, tasse e personale. Io non mi illudo granché: lo so che il bla-bla-bla sulle riduzioni fiscali e sui netti in busta paga in Italì appassiona sempre e soltanto chi sta all’opposizione finché non va al Governo, e lo so che viviamo da decenni in un sistema dove i già ricchissimi vengono serviti e i wannabe uccisi (se non si uccidono da soli). Ma appunto per questo sono incazzato, e vi dico che occorre essere più cattivi, santa Madonnina. E’ adesso che si vedrà di che pasta è fatto lo Stato, di che pasta è fatta la Regione, di che pasta è fatto il Comune. Toglieteci i costi, i soldi, non la “burocrazia”! Chiedi al tuo politico di agire sul campo dove scivola: l’euro, vai al bersaglio grosso: il grano. Che se lo fai parlare di carte bollate ti frega sempre e comunque e non ci guadagni una lira. Il problema semmai è l’efficienza del sistema, non l’eccesso di controlli. Anzi, controlli e garanzie al consumatore vanno aumentati. Dopodiché guardiamoci nelle palle degli occhi: i farlocchi, i barlafus, i balabiott e quei che i minga bon… dovranno lasciare il mercato. Invece, il costo d’esercizio per chi sa e vuole far bene, va abbassato con l'applauso incluso e di parecchio! Anche il ristoratore può essere un eroe dei nostri tempi, se li sa interpretare al meglio. Dunque sgravare, sgravare, sgravare. Qualcosina si inizia a vedere sulla Cosap e sui rifiuti. Attenzione, però: l’occupazione del suolo pubblico e il ciclo dei rifiuti sono altri due argomenti sui quali non consentiamo deroghe alla qualità e alla sostenibilità di tutti i tipi. Detto ciò, la Rivoluzione di Milano va implementata, va appoggiata e va ripagata a dovere. Anche col debito pubblico: non è che a Robespierre a Lenin o a Garibaldi si andava a fare il conto dei punti-fragola, mi spiego? Riassumendo: più verde, meno palazzi, niente crescita demografica, meno movida, piu bella vita. Ma per tutti. Altrimenti ci arrabbiamo.