Il digitale è quel servizio pubblico essenziale che i pubblici poteri gestiscono assai male. Ma il disservizio ci è divenuto insopportabile, inaccettabile, da quando l'emergenza Virus ci ha insegnato che Internet è la rete che può salvarci la vita. E lo ha fatto.
Francesca Cafiero e Andrea Lisi
Presidenza ANORC, Studio Legale Lisi

Dalla mela morsa di Apple alle iniziali runiche di Bluetooth: il digitale non è altro che un racconto “aggiornato” dell’umanità, che vive grazie all’apporto di numerose vicende pregresse dalle quali trae continuo nutrimento. È importante che questo “patrimonio” comune sia raccolto e interpretato correttamente dal diritto, finora “stordito” dall’innovazione e “imbrigliato” nell’ostinato mantenimento del rigore tradizionale in una forma che, spesso, non ha più sostanza. Ce ne siamo accorti vivendo un’emergenza “a colpi” di Dpcm che per molti studiosi potrebbero essere dichiarati incostituzionali.
E finalmente abbiamo anche scoperto che il web non è poi tanto “separato” dalla realtà fisica, anzi al suo interno coesistono nuovi servizi “essenziali” nella nostra società, piattaforme, app e strumenti di lavoro a distanza, con i quali è necessario imparare a convivere pacificamente. Dopotutto, siamo già parte del grande racconto del digitale. Sì, la pandemia ci ha reso maggiormente consapevoli.
Forse si tratta di uno dei pochi risvolti positivi dell’esperienza che abbiamo vissuto finora. Saremmo stati in grado di “sopravvivere” al completo lockdown senza WhatsApp, Skype, Google, Messenger o YouTube? Forse no. Senza neppure averne totale consapevolezza, la pandemia ci ha permesso di cambiare “naturalmente” l’approccio nei riguardi del digitale, che si è “trasformato” in un vero e proprio “servizio pubblico”, poiché implica senz’altro delle ripercussioni anche giuridiche di carattere pubblicistico.
Sembrerà curioso, ma nel manifesto del 2017 “Building Global Community”, Zuckerberg descriveva l’infrastruttura di Facebook proprio utilizzando queste parole: “uno strumento per combattere il terrorismo, le pandemie e il cambiamento climatico”. Dal momento che due su tre già c’erano, sulla terza sembra davvero averci visto lungo…!
Quali rischi corriamo nell’immediato
L’Italia che passa dalla Fase1 alla Fase2 ha visto il coinvolgimento di un numero considerevole di attori pubblici (tralasciando l’apporto ondivago e confuso delle task force di esperti chiamate in gioco). In primis il Presidente del Consiglio, poi il Commissario straordinario per l’emergenza, ancora il Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. Sullo sfondo, ma non meno importanti, si dovrebbero contare anche il Ministro per la Pubblica Amministrazione e lo stesso Ministro per le regioni e le autonomie locali, il cui ruolo non deve essere sottovalutato per la concreta attuazione delle strategie nazionali. Ma basterà un calendario di riaperture, in combinazione ad una app di contact tracing, per far ripartire il Paese?
L’emergenza ci sta impietosamente mettendo di fronte ad un Sistema Paese che si muove alla rinfusa, con ricette improvvisate e mutuate grossolanamente dall’esperienza di altri Stati (spesso profondamente diversi dal nostro), mentre rimangono totalmente inattuati tutti gli articoli del Codice dell’amministrazione digitale che prevedono disponibilità e riutilizzabilità dei dati delle pubbliche amministrazioni in cooperazione applicativa. Un miraggio che ci avrebbe invece oggi permesso di combattere con efficacia il virus, verificandone nell’immediatezza la diffusione.
Ma è certo che stiamo comunque vivendo un profondo cambiamento, che è prima di tutto di percezione culturale e sociologica. E il cambiamento al quale stiamo assistendo dovrebbe implicare da qui ai prossimi mesi l’evoluzione di alcuni modelli di “governo” e “organizzazione” finora alla base della nostra “normalità”.
Tuttavia, nessuno sembra preoccuparsi di avanzare una proposta precisa, specifica, coordinata magari su scala europea, di come gestire questa evoluzione che sta avvenendo, catalizzata da un evento di dimensioni anazionali e che ha bisogno di essere indirizzata da un vero e proprio “piano strategico europeo”.
Il Governo ha finora adottato i suoi metodi, ma il diritto non può non misurarsi oggi solo con nuovi strumenti. C’è bisogno di un nuovo filone narrativo, in grado di estendersi sia a livello sovranazionale, che locale, in poche parole andrebbe applicato nei fatti l’abusato slogan: think globally, act locally.
Il digitale è il mezzo, non il fine
Sì, il Governo ha tra l’altro sprecato preziose energie concentrandosi nella scelta e pianificazione di uno strumento di contact tracing che si sta rivelando un flop annunciato. Si tratta purtroppo dell’ennesima, triste conferma che ancora oggi sono proprio coloro che dovrebbero guidare lo svecchiamento del Paese a indurci ad accettare passivamente, senza porci troppe domande, sistemi e logiche che ci mettono invece a rischio. Così facendo, si mettono in discussione gli stessi diritti fondamentali che dopo anni di lotte e rivoluzioni culturali abbiamo guadagnato. Nessuno del resto aveva mai anche solo osato ipotizzare o programmare un collasso digitale della nostra esistenza: ebbene, ci siamo quasi. Internet, il web, il “digitale” sono e restano strumenti, pur di incredibile capacità e sta a noi utilizzarli correttamente e con la logica del “buon padre di famiglia”, pensando al domani, come lo stesso Giovanni Buttarelli ci ha insegnato nel suo Manifesto: “la stessa tecnologia digitale del resto, a seconda di come venga utilizzata, può essere dannosa per l’ecosistema, a causa del suo impatto ambientale, oppure utilissima per contribuire a ridurre l’inquinamento.”